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FAQ

Diritto di famiglia

Che differenza c'è tra separazione consensuale e giudiziale?

Con la separazione legale i coniugi non pongono fine al rapporto matrimoniale, ma ne sospendono gli effetti nell’attesa o di una riconciliazione o di un provvedimento di divorzio.

Con il divorzio (introdotto e disciplinato con la legge 1.12.1970 n. 898) viene invece pronunciato lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili (se è stato celebrato matrimonio concordatario con rito religioso, cattolico o di altra religione riconosciuta dalla Stato italiano). Col divorzio vengono a cessare definitivamente gli effetti del matrimonio, sia sul piano personale (uso del cognome del marito, presunzione di concepimento, etc.), sia sul piano patrimoniale (successione ereditaria). La cessazione del matrimonio produce effetti dal momento della sentenza di divorzio.

Con la Legge n. 55/2015 è stato introdotto l’istituto del “divorzio breve” che stabilisce tempi molto più brevi rispetto al passato per poter richiedere il divorzio. L’art. 1 di detta legge stabilisce che devono essere trascorsi:”[…] dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale (giudiziale) e sei mesi nel caso di separazione consensuale, anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale”.

La procedura di negoziazione assistita è possibile anche in presenza di figli?

Sì, la separazione semplificata (e così pure il divorzio) mediante negoziazione assistita dagli avvocati è possibile anche in presenza di figli, e anche quando i figli sono minori di età oppure maggiorenni ma economicamente non autonomi, o portatori di handicap grave.
In questi casi, tuttavia, una volta che l’accordo è stato concluso e trasmesso al Procuratore della Repubblica, può accadere che il Procuratore lo ritenga non conforme all’interesse dei figli minori, e lo trasmetta al Presidente del tribunale. Questi convoca le parti entro i successivi 30 giorni.

Cos'è l'addebito della separazione?

Ove ricorrano specifiche circostanze e se richiesto da una delle parti, il Giudice può pronunciare la separazione dichiarando a quale dei due coniugi essa sia addebitabile.L’addebito assume rilevanza in ambito successorio (art. 548 e 585 c.c.) e per la determinazione dell’assegno di mantenimento (art. 156 c.c.).
Costituiscono fatti che possono condurre all’addebito della separazione quelli che ledono il dovere di lealtà, quali i maltrattamenti, l’omessa assistenza morale e materiale e l’abbandono ingiustificato della casa coniugale.
Secondo la giurisprudenza, l’adulterio, di per sé, non è causa di addebito, se non quando sia grave e notorio al punto da determinare discredito sociale in pregiudizio dell’altro coniuge.

Quando sorge l'obbligo del coniuge separato di versare all'altro coniuge un assegno di mantenimento?

Il Giudice, pronunciando la separazione, può stabilire a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento (cc.dd. assegno di mantenimento), qualora i suoi redditi non siano adeguati a permettergli di mantenere un tenore di vita similare a quello condotto in costanza di matrimonio (art. 156 c.c.). L’entità dell’assegno è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi del coniuge obbligato.
Resta fermo l’obbligo di prestare gli alimenti per chi versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere autonomamente e per ragioni obiettive (i figli minori o maggiorenni ma non ancora economicamente autosufficianti). Diversamente dal mantenimento, gli alimenti rappresentano un contributo minimo e indispensabile per consentire di soddisfare i bisogni primari dell’individuo.

Affidamento dei figli: esclusivo o condiviso?

L’affidamento dei figli può essere condiviso o esclusivo.
Con la Riforma del diritto di famiglia del 2006 viene prediletto l’affidamento condiviso che prevede, in caso di cessazione della convivenza dei coniugi, l’attribuzione stabile ad entrambi i genitori dell’esercizio della responsabilità genitoriale in regime di comune accordo.
Il Giudice valuta primariamente l’interesse del minore ed in certi situazioni critiche (abusi, violenze, totale disinteresse del genitore al figlio, violenza sulla madre in presenza ei figli, impossibilità temporanea o definitiva dei genitori di essere individuati come affidatari a causa di malattie, di dipendenze (alcool, sostanze stupefacenti, etc.) o per altri gravi motivi) può essere disposto l’affidamento esclusivo ad uno solo di essi.

A chi viene assegnata l'abitazione coniugale?

La legge prevede che l’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza, e ove possibile, al genitore cui vengono affidati i figli, o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età e sino alla loro indipendenza economica (art. 155 c.c. e art. 6 L. 898/70).
In ogni caso il Giudice deciderà a quale dei coniugi assegnare la casa coniugale dopo aver valutato le loro condizioni economiche e le ragioni della sua decisione, favorendo il coniuge più debole.
L’assegnazione, pertanto, non è possibile a favore del coniuge non affidatario o in mancanza di figli. In tale ultimo caso la disponibilità dell’abitazione coniugale sarà disciplinata sulla base delle normali regole sulla proprietà e sulla locazione.
Come possono tutelarsi le coppie di fatto?
Il nostro ordinamento non prevede una disciplina specifica dedicata alla convivenza more uxorio, i quali possono cercare di tutelare i propri interessi stipulando degli accordi – cc.dd. “patti di convivenza” – miranti a regolamentare i propri rapporti patrimoniali.

Amministrazione di sostegno, interdizione ed inabilitazione

Cosa si intende per "amministrazione di sostegno"?

L’istituto dell’amministrazione di sostegno è stato introdotto con la Legge n. 6 del 9.1.2004.
L’amministrazione di sostegno mira a tutelare le persone, in tutto o in parte, prive di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente che limitino il meno possibile la capacità di agire.
Tale nuovo istituto si aggiunge agli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione e rappresenta uno strumento giuridico più idoneo a conservare l’azione dei soggetti interessati nel contesto sociale.
L’amministrazione di sostegno può riguardare anziani, disabili, alcolisti, tossicodipendenti, carcerati, malati terminali, non vedenti e tanti altri soggetti portatori di un disagio che rende loro arduo svolgere concretamente le attività quotidiane ma per i quali non sia opportuno procedere ad una richiesta di interdizione o di inabilitazione.
Queste categorie di persone potranno così presentare direttamente un’istanza al Giudice Tutelare della propria zona di residenza o di domicilio richiedendo la nomina di un amministratore che abbia cura di loro e del loro patrimonio.

Chi può essere nominato amministratore di sostegno?

Di norma vengono preferite persone legate da parentela con il beneficiario però possono essere anche designati soggetti estranei ma comunque ritenuti idonei a garantire il rispetto degli interessi del soggetto bisognoso. Non sono richieste competenze specifiche per svolgere l’incarico.

Quali attività può svolgere l'amministratore di sostegno?

I compiti dell’amministratore di sostegno vengono analiticamente stabiliti nel decreto di nomina emesso dal Giudice Tutelare. Se dovesse rendersi necessario porre in essere atti non previsti nel decreto, l’amministratore di sostegno deve rivolgersi al Giudice e chiedere la relativa l’autorizzazione.

Per quanto tempo viene svolto l'incarico di amministratore di sostegno?

La durata dell’incarico è variabile ed è il Giudice Tutelare a decidere se disporre una nomina a tempo indeterminato o determinato. E’, comunque, sempre possibile chiedere una proroga dell’incarico allo scadere del tempo inizialmente stabilito.

Cosa si intende per "interdizione"?

L’istituto dell’interdizione trova applicazione in tutti quei casi in cui una persona maggiorenne si trovi in situazione di abituale infermità di mente che comporti una incapacità di provvedere ai propri interessi, ossia una incapacità legale a compiere atti giuridici (come quella in cui si trova il minore).
Gli atti eventualmente compiuti dall’interdetto saranno pertanto annullabili su richiesta del tutore, dello stesso interdetto o dei suoi eredi o aventi causa (art. 427 c.c.).
La domanda di interdizione può essere chiesta solo da determinati soggetti e viene dichiarata con sentenza che, contestualmente, nomina un tutore, scelto di preferenza tra il coniuge che non sia separato, il padre, la madre, un figlio maggiorenne o la persona designata con testamento dal genitore superstite.
Il tutore ha il compito di rappresentare legalmente l’interdetto e di amministrarne il patrimonio.

Cosa si intende per "inabilitazione"?

Per inabilitazione si intende un’incapacità giuridica relativa, di minore importanza rispetto all’interdizione.

Essa può essere chiesta solo in particolari situazioni (art. 415 C.C.):

  • per un soggetto maggiore di età infermo di mente, lo stato del quale non è talmente grave da far luogo all’interdizione;
  • per coloro che, per prodigalità o per abuso abituale di bevande alcooliche o di stupefacenti, espongono sé o la loro famiglia a gravi pregiudizi economici;
  • per il sordomuto e il cieco dalla nascita o dalla prima infanzia, quando risulta che essi sono del tutto incapaci di provvedere ai propri interessi, salva la possibilità, per i casi più gravi, di ricorrere all’interdizione.

Chi amministra i beni dell'inabilitato?

Nel caso di inabilitazione non si ha una vera e propria rappresentanza legale ma una forma di assistenza devoluta ad un curatore nominato dal Giudice Tutelare.
Il curatore, pertanto, non si sostituisce all’inabilitato, ma si limita ad integrare la volontà dell’inabilitato nel compimento degli atti giuridici che lo riguardano.
Se, però, si rende necessario compiere atti di alienazione o di straordinaria amministrazione, si deve chiedere l’autorizzazione al giudice tutelare o al tribunale, a seconda dei casi.

Diritto successorio

Quali bene sono oggetto di successione?

Il nostro ordinamento prevede che si trasmettano per successione solo i diritti patrimoniali (artt. 587 e 588 c.c.), mentre tutti i rapporti non patrimoniali, sia personalissimi che familiari, si estinguono con la morte del titolare.

Cos'è la capacità di succedere e chi ne è in possesso?

Secondo quanto stabilito dall’art. 462 c.c., nella successione testamentaria sono capaci di succedere:

  • coloro che sono nati al tempo dell’apertura della successione;
  • i nascituri concepiti;
  • i figli non concepiti di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore.

Diversamente, nell’ambito della successione legittima la capacità di succedere compete solo alle prime due categorie indicate.
Possono, inoltre, succedere solo per testamento le persone giuridiche e gli enti non riconosciuti, fuorchè lo Stato a cui viene devoluta l’eredità in mancanza di altri successibili.

Che differenza c'è tra eredità e legato?

Entrambe le fattispecie sono collocate nella categoria generale della successione a causa di morte, che comporta il subingresso di un soggetto nella titolarità di uno o più rapporti giuridici facenti capo ad un altro soggetto.
Se la successione a causa di morte è a titolo universale il successibile viene denominato “erede” mentre se è a titolo particolare si parla di “legatario”.
In caso di successione a titolo universale l’erede subentra indistintamente nell’universalità dei beni del testatore o in una quota degli stessi (art. 588 c.c.) e di regola vi è confusione tra il suo patrimonio e quello del defunto, sicchè l’erede risponde dei debiti ereditari anche con il proprio patrimonio.

Cosa sono i patti successori?

La legge prevede espressamente la nullità dei cosiddetti patti successori (art. 458 c.c.), che si suddividono in tre fattispecie:

1. patti istitutivi: convenzioni con cui il soggetto dispone della propria successione;

2. patti dispositivi: negozi con cui un soggetto dispone dei propri beni in favore di terzi;

3. patti rinunciativi: il soggetto rinunzia ai diritti successori che potranno spettargli all’apertura della successione.

Che differenza c'è tra successione legittima e testamentaria?

La successione legittima (o intestata) è disciplinata dalla legge, che predispone criteri e soggetti cui attribuire i diritti successori in caso di assenza di testamento.
Essa è, infatti, suppletiva alla successione testamentaria, che ha titolo nel testamento e consente all’individuo di disporre dei propri beni per il periodo successivo alla sua morte.
I successibili vengono individuati dal legislatore in base all’intensità dei vincoli di parentela che uniscono i congiunti al defunto (i parenti più prossimi escludono i più lontani).
Le classi dei successibili sono così individuate: coniuge, discendenti legittimi e naturali e adottivi, ascendenti legittimi, collaterali, altri parenti (fino al sesto grado) e Stato (art. 565 c.c.).

Che tipi di testamento esistono?

Il testamento è un negozio giuridico unilaterale e personale e solo il testatore è legittimato a porlo in essere; è revocabile e deve necessariamente estrinsecarsi in una delle forme previste dalla legge.

Il testamento può essere ordinario o speciale:

è ordinario se olografo (scritto, datato e sottoscritto dal testatore, art. 609 c.c.) o redatto per atto di notaio in forma pubblica (art. 603 c.c.) o segreta (art. 604 c.c.);
è speciale se pubblico e redatto per iscritto, davanti ad un pubblico ufficiale o assimilato, in una delle forme riconosciute dall’ordinamento solo per determinate situazioni o circostanze eccezionali (ad es. in caso di malattie contagiose, calamità pubbliche, infortuni; testamenti in navigazione marittima o aerea e testamenti dei militari ed assimilati).

Il testamento dev'essere pubblicato?

La pubblicazione del testamento è l’atto con cui si rende conoscibile il contenuto dello stesso ai chiamati alla successione, ai familiari del defunto, ai creditori ereditari ed a quelli dell’erede ed ha, altresì, la funzione di renderne possibile l’esecuzione.
Devono essere pubblicati il testamento olografo e quello segreto.
Chiunque è in possesso di un testamento olografo deve presentarlo ad un notaio per la pubblicazione non appena ha notizia della morte del testatore.
Il testamento segreto deve essere aperto e pubblicato dal notaio appena gli pervenga la notizia della morte del testatore e tale pubblicazione ha luogo con le stesse modalità del testamento olografo (art. 621 c.c.).

Quando il testatore è incapace?

Per la stesura di un valido testamento la legge richiede che il testatore abbia una piena capacità di agire e di intendere e di volere.
Sono, dunque, incapaci di testare tre categorie di soggetti: i minori, gli interdetti per infermità di mente e gli incapaci naturali (art. 591 c.c.).

Infortunistica e risarcimento danni

Quali sono le principali voci di danno risarcibile?

Le classificazioni cui è soggetto il danno risarcibile sono varie e molteplici.
Innanzitutto, va tenuto distinto il danno patrimoniale dal danno non patrimoniale.
Sono danni patrimoniali quei danni inferti, per l’appunto, alla sfera patrimoniale del singolo soggetto, mentre i danni non patrimoniali vanno ravvisati nella lesione di interessi giuridicamente rilevanti cagionata secondo le regole degli articoli 2043 e seguenti del codice civile.
All’interno della macro-categoria dei danni patrimoniali si suole differenziare il danno emergente (ossia la perdita effettivamente subita e valutabile economicamente) dal lucro cessante (ossia il mancato guadagno conseguente l’evento lesivo).
Nel danno non patrimoniale, invece, si possono configurare diverse voci descrittive del pregiudizio sofferto, quali il danno biologico, il danno morale e il danno esistenziale.
Il danno biologico è a lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito.
Il danno morale è la sofferenza di tipo soggettivo cagionata dall’evento lesivo, sofferenza che può essere sia di natura transitoria, sia di natura permanente.
Il danno esistenziale è infine rappresentato da qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana, quale ad esempio la lesione della serenità familiare, o del godimento di un ambiente salubre, distinto dal danno biologico perché non presuppone l’esistenza di una lesione fisica, e distinto dal danno morale perché non costituisce una sofferenza di tipo soggettivo.

Cosa si intende per danno punitivo?

Si tratta di un istituto di common law che trova il suo principale luogo di sviluppo negli Stati Uniti d’America, dove, con l’espressione punitive damages , ci si riferisce ad una «sanzione civile a contenuto pecuniario, il cui ammontare è attribuito – generalmente – al danneggiato in aggiunta al risarcimento del danno vero e proprio, allo scopo di sanzionare l’autore (o, più in generale, il responsabile) di condotte lesive avverso le quali l’ordinamento giuridico dimostra un elevato sentimento di riprovazione».
Nell’ordinamento italiano, considerata la funzione compensativa e non già sanzionatoria della responsabilità civile, non è prevista una tale voce di danno.

Quali oneri probatori vanno assolti per ottenere il risarcimento dei danni subiti?

Generalmente, per ottenere il risarcimento dei danni sofferti è necessario fornire indicazione esatta non solo dell’an (ossia dell’evento lesivo generatore del danno), ma anche del quantum (ossia prova dell’esatto ammontare in cui si concretizzano i pregiudizi arrecati al danneggiato).
Tuttavia, l’art. 1226 c.c. stabilisce che se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, viene liquidato dal giudice con valutazione equitativa.
Affinché si dia luogo alla valutazione equitativa è necessario che risulti provata l’esistenza di un evento lesivo collegato da un nesso causale alle lesioni sofferte (prova del c.d. an) e che il quantum non possa

Quando si prescrive il diritto al risarcimento del danno?

In via del tutto esemplificativa è possibile distinguere due termini di prescrizione a seconda che il danno risulti causato da un inadempimento contrattuale, ovvero extra-contrattuale.
In ipotesi di responsabilità contrattuale (artt. 1218 ss. c.c.) il risarcimento può essere chiesto entro dieci anni dall’inadempimento dell’obbligazione, mentre nel caso di responsabilità extra-contrattuale (artt. 2043 ss. c.c.) il danneggiato ha diritto ad ottenere il risarcimento qualora eserciti i propri diritti entro cinque anni dal verificarsi dell’evento lesivo.
Inoltre, va precisato che in caso di danno prodotto dalla circolazione dei veicoli, il diritto al risarcimento si prescrive, ai sensi dell’art. 2947 c.c., secondo comma, nel termine di due anni, salvo che il fatto lesivo sia considerato dalla legge come reato. In quest’ultima eventualità, infatti, se per il reato è prevista una prescrizione più lunga, lo stesso termine andrà applicato anche all’azione civile.
Per impedire il maturarsi della prescrizione è necessario porre in essere un c.d. atto interruttivo della stessa, quale, ad esempio, la messa in mora del danneggiante mediante lettera raccomandata.

È possibile essere risarciti per la perdita di un congiunto?

Certo, è possibile, m solo se viene accertato dal Giudice che la morte sia stata conseguenza di una condotta dolosa o colposa di un soggetto/i terzo/i. Il risarcimento per la perdita di un familiare o di un parente comprende varie tipologie di danno sia patrimoniale che non patrimoniale.

In caso di licenziamento senza giustificato motivo o senza giusta causa si ha diritto ad un risarcimento danni?

Sì, in primo luogo perché il licenziamento illegittimo comporta, per chi lo subisce, danni di varia natura.
Discorso similare va fatto per il demansionamento, come pure per il mobbing e per tutte le altre condotte datoriali palesemente contrarie alla legge.
Sono risarcibili sia i danni di natura patrimoniale che quelli di natura non patrimoniale.

Diritto del lavoro

Cosa si intende per "contratto individuale di lavoro"?

Il contratto individuale di lavoro viene stipulato tra il lavoratore ed il datore di lavoro ed è un accordo a fronte del quale il lavoratore s’impegna a rendere il proprio servizio al datore di lavoro e quest’ultimo si impegna a corrispondere al lavoratore una retribuzione per il lavoro svolto (art. 319 CO). Il contratto di lavoro è solitamente concluso a tempo indeterminato ma, specialmente a fronte della crisi economica che ha coinvolto il nostro Paese negli ultimi anni, è aumentato notevolmente il numero dei contratti di lavoro conclusi per un tempo determinato, tali da comportare la cessazione automaticamente del rapporto alla data prestabilita.

Cosa si intende per "contratto collettivo di lavoro" (CCL)?

Il contratto collettivo di lavoro è un contratto stipulato tra datori di lavoro o associazioni di datori di lavoro e associazioni di lavoratori (sindacati), che disciplina in modo uniforme le condizioni di lavoro (ore supplementari, vacanze, disdetta, ecc.) e di retribuzione in specifici settori lavorativi.
Il CCL deve essere rispettato da tutti i datori di lavoro e i lavoratori che sono affiliati a una delle parti contraenti del CCL o hanno aderito al CCL (datori di lavoro e lavoratori aderenti).

Esistono degli obblighi in capo al datore di lavoro al momento di conclusione del contratto?

Sì. La legge prevede che il datore di lavoro, al momento di conclusione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato o per più di un mese (art. 330b CO), debba informare per iscritto il lavoratore in merito a:

  •  nome dei contraenti,
  • data d’inizio del rapporto di lavoro,
  • funzione del lavoratore,
  • salario ed eventuali supplementi salariali,
  • durata settimanale del lavoro.

Se un figlio è malato, uno dei genitori può assentarsi giustificatamente dal lavoro o deve utilizzare giorni di vacanza?

In caso di malattia del figlio il genitore ha diritto a restare a casa per massimo tre giorni senza dover attingere alle vacanze e producendo idoneo certificato medico del figlio malato. Un esonero più lungo è ammesso solo se adeguatamente giustificato e viene equiparato all’impedimento al lavoro senza colpa (art. 324a CO).

Un contratto di lavoro può essere oggetto di risoluzione immediata da parte del datore di lavoro?

Certo. La risoluzione immediata del contratto di lavoro è ammessa ma unicamente per cause gravi, ossia per circostanze che non permettono di esigere in buona fede la continuazione del rapporto di lavoro (art. 337 CO).
Tra le violazioni gravi che giustificano un licenziamento immediato senza preavviso si possono ricordare i reati sul posto di lavoro, il rifiuto ripetuto di compiere il lavoro, lo svolgimento di attività concorrenziale, la divulgazione di segreti d’affari, oltraggi a superiori o colleghi, etc.

La risoluzione immediata è ammessa anche da parte dei lavoratori?

Sì ma, anche in questo caso, solo se non si può esigere che il lavoratore prosegua il rapporto di lavoro in buona fede e solo in casi gravi, come ingiurie da parte di superiori, violenze sessuali, gravi e continue inadempienze delle prescrizioni sulla protezione della salute etc.